mercoledì 23 giugno 2010

Leggere i Fondi del Caffè

Sapere leggere i Fondi del Caffè non è un’arte: è una Disgrazia. Una triste maledetta Disgrazia. Per anni si spera di apprendere questa veggente abilità di predizione del futuro. Sogniamo di poterci capire il mondo, di imparare a leggerlo e –di pari passo- affrontarlo con le ossa robuste. Cazzate. Tutte cazzate.

Non serve a niente Intuire segreti nel grumo di polvere e liquido che sguazza in fondo ad una tazzina leggermente inclinata. Neanche farla decantare un po’ aiuta. E nemmeno stuzzicarla con un cucchiaino.

Tanto –alla fine- ci vogliono sempre i coglioni per Accettare quello che ha da dirti. Non c’è tanto da girarci intorno. Accettare o ricostruire fantasiosamente una verità scomoda, annacquandola. E guardare in faccia la realtà non mi sembra il mestiere più felice di questo mondo. Anzi. Si cerca sempre di fare di tutto per ricamare un sottile filo d’oro sulla vela di un vascello in partenza. Illudendosi –forse- che ammirare i raggi del sole splendenti su quell’oro renderà l’Orizzonte meno cinico. A Lui non importa, non ti guarda in faccia, non avrà pietà di te. Fagociterà quella Nave, come ha fatto con tante altre, come ha fatto con tanti altri.

Quindi a che serve quella straordinaria capacità di leggere i Fondi del Caffè? A niente. Ti schiaffa soltanto nel fango. Ti conficca le dita fra i capelli e con violenza ti affoga in quella melma soffocante. Complica la tua esistenza, strattonandola fra l’inevitabile Verità e la speranza di un tuo eccezionale Errore. Invece no. Chi legge in fondo alla Tazzina non ha il Diritto di sbagliarsi. Non può fermarsi e tutto ad un tratto annullare quella sua tragica eccezionale abilità. Si resta lì, fermi, ad orecchie basse e Si Legge. Senza fiatare. Senza poter fare altrimenti. In silenzio, sottomessi.

Forse l’ammirazione di qualche stolto passante potrà illudere che tutto ciò sia un Talento e non una Disgrazia. Gli applausi e i complimenti danno alla testa, offuscano gli occhi. La Specialità di una diversa umanità non implica certo una Fortuna, quanto –piuttosto- una maledetta Sfiga.

La Realtà –sia chiaro- resta quella che è, sebbene sia sempre il nostro apparato percettivo a filtrarci il nostro essere nel mondo. Prima o poi –comunque- veniamo a scontrarci con le mura di cinta delle nostre possibilità d’azione. Ma –a volte- credo che l’Incoscienza sia una beata virtù. O forse dovrei chiamarla Concretezza, Pragmatismo, o banalmente Semplicità. Quella Semplicità intrisa di Presente che non porta ad andare oltre, cercando ciò che sarà e come sarà. Quella leggerezza data dall’assenza di Ansia, di Complessità, di Complicatezza. Quel camminare su una nuvoletta grigia, senza rendersi conto di quello che passa. Lasciando scorrere tutto.

A volte maledico tutto questo mio costitutivo Pensare. Tutto questo mio Sentire. A volte lo odio proprio.

E ogni volta prendo il Caffè. Provo a non leggere niente. Quasi mai ci riesco.

domenica 2 maggio 2010

Quei maledetti Cinque Minuti

Arriva un momento in cui tutto si fa lucido, chiaro. Nella testa, tutto lì dentro. Vedi la scena, l’obiettivo, dove devi e vuoi arrivare. Non è troppo piacevole, sia chiaro: c’è qualcosa sullo stomaco che si annoda, un viluppo che pesa e svuota. C’è Paura di quella Consapevolezza nitida che tanto incoraggia ma che –sotto sotto- annienta la cognizione di causa del tutto.

Fatto sta che quell’improvvisa chiarezza ti infonde tanta determinazione. Sei deciso, quasi duro, secco. Sai di doverti imporre e lo vuoi, ne sei convinto. Hai una carica addosso talmente effervescente da farti fremere le vene. Vorresti andare e spaccare. Velocemente. E non per volontà di decisione chiara e distinta, ma –forse- più per paura di perdere tutta quella carica. Perché forse quella carica non è poi così decisa. Lo senti che qualcosa non è così definito, chiaro. Soffochi però questa timida voce come un fastidioso ribelle anarchico. Un sovversore dell’ordine costituito. Lo odi e lo pesti a sangue. Ti chiedi chissà perché ci sia sempre una voce che sconquassa la perfetta stabilità di un sistema di idee. Ma –inevitabile maledizione della Vita- arriva un giorno in cui fogli perfettamente conservati vengono sgualciti da una rabbiosa chiusura di pugno. Ma –in ogni caso- il ribelle viene epurato. Radiato, esiliato là dove non può incrinare alcuna decisione. O forse l’ha già fatto. E così ti avvicini a ciò che devi fare. Non è difficile: bastano solo cinque minuti. Cinque maledetti minuti. Il semplice e lineare tempo necessario a introdurre il discorso, argomentarlo e concludere con una bella decisione. Secco e determinato.

E invece no. Troppo semplice.

La preparazione è perfetta: nulla da eccepire. Le motivazioni, pure. Così come la grinta. Tutto stramaledettamente preparato nei minimi dettagli. L’unica cosa che non avevi previsto –e che non avresti mai potuto prevedere- è Lei. Lei che arriva, venendo a salutarti. Due bacini, un “come stai” di situazione. Lei che si siede e ti guarda e ancora ti chiede qualcosa. Ma tu sei già a pensare allo schema, alla scaletta, a Dove vuoi arrivare. Non la ascolti. Non c’è verso.

Poi cominci a discorrere, cercando l’occasione per attaccare la fascia e crossare nel mezzo la propria determinata presa di posizione. Ed ecco la Tragedia. L’inevitabile fatalità che disintegra ogni possibile sicurezza.

Lei ti guarda, mentre parli. Lei ti guarda e Ti Sorride.

Eccola lì la Tragedia. Tutto si sfalda, evapora: puff! E te ne stai immobile a guardare la scena preparata che letteralmente se ne vola via. Te –ormai- sei di nuovo in quel patologico flusso di legami e attrazioni in cui puoi solo continuare ad annaspare.

Non è colpa Sua, non lo fa apposta. Sia mai! Non c’è nessun progetto maligno. Lei E’ così, non costruisce niente. E’ il normale scorrere di Vita che si compie. Ha una potenza che va al di là delle capacità maschili di gestione della situazione.

Tu non puoi far altro che subirla, accettarla con le labbra che si increspano. Con un sorriso che lì vi spunta. E –intanto- la conversazione procede, tutto rientra nelle guide. Tutto va avanti. Pare nel migliore dei modi. Pare.

lunedì 26 aprile 2010

Un Solo Senso alla volta -uno soltanto-

Un solo Senso alla volta. Uno soltanto. Ne abbiamo cinque, d’accordo. Qualcuno dice che la molteplicità di impressioni di una medesima cosa aiuta nella conoscenza di questa. Non credo.

Non siamo capaci di gestirli: ci sfuggono di mano, vanno per conto proprio, brancolando a caso in un oceano di sensazioni spesso sfuggenti, spesso mutevoli. E noi perdiamo il fulcro della nostra ricerca percettiva tentando di organizzare materiale che arriva da naso, occhi, orecchie. Ascoltiamo la musica incantandoci nell’armonico movimento di archi e corde. Contempliamo l’andarsene di un tramonto mentre auto sfrecciano alle nostre spalle, mentre un telefono squilla nella nostra tasca. Vaghiamo spaesati dalla cinquina di scintille che stimolano il nostro cervello. A bocca aperta, senza capirci niente.

E questo non per maledizione divina, tantomeno per incapacità strutturali. E’ solo una mancanza di applicazione. Tenace e costante applicazione. Arrogantemente ci consideriamo padroni dei nostri sensi, utilizzatori di livello sublime dei nostri strumenti in dotazione, maestri della percezione sensoriale. C’è invece da imparare con pazienza a riconoscere ogni singolo dettaglio che arriva alla nostra mente, senza limitarsi ad una constatazione approssimativa.

E –per apprendere questa precisione- occorre concentrarsi. Semplicemente. Non è un lavoro troppo complesso, né tantomeno difficile. Basta spegnere tutti gli altri sensi . Tutti gli altri, che in quel preciso momento sono superflui. Non mi spingo a dire che sono inutili: sono soltanto superflui. Un Plus che può certamente connotare meglio quel che si percepisce, ma che –spesso- distoglie l’attenzione dall’Essenza di ciò che cerchiamo. E così imparare ad ascoltare le note di un brano ad occhi chiusi, immobili, con le mani sotto il mento. Imparare a contemplare le colline inondate di primavera tappandosi le orecchie, distesi in un angolo di un prato. Assaporare il profumo di un olio che è appena stato aperto o la dolcezza di una carezza che ti sfiora il volto.

Focalizzare la ricerca percettiva verso uno e un solo apparato sensoriale. Il tutto al fine di cogliere sempre più dettagli, affinando progressivamente la precisione e –di pari passo- la relativa emozione. Potenziare con l’allenamento la propria personale capacità di conoscere il mondo, di amarlo, di apprezzarlo. Anelare a emozioni da toglierti il fiato, da lasciarti sgorgare una lacrima solitaria da palpebre socchiuse.

E così perdersi in mezzo alla platea di un Teatro. Sentire archi che volano da una parte all’altra, ondeggiando fra tocchi rapidi e fugaci e abbracci lunghi due intere battute. Cogliere le grida gravi dei contrabbassi che si nascondono dietro un angolo, timidamente. E l’intera atmosfera carezzata dal duettare di tasti di pianoforte che da destra e sinistra si raccontano storie di paesi lontani, di sogni proibiti, di amori inseguiti.

Il tutto ad Occhi Chiusi. Solo e soltanto ad Occhi Chiusi.

domenica 28 marzo 2010

Libertà, Sistemazione e Vita che scorre

Ci vuole Coraggio per sopportare di essere Liberi. Liberi dai condizionamenti degli altri, liberi dalle stupide paure che avvinghiano i giorni.

E’ molto più semplice restare in catene. Sebbene molto meno saporito. Le guardie ti indicano cosa fare, la tua giornata è scandita dal geometrico susseguirsi di azioni preconfezionate. Tu devi solo seguire quello schema. Niente di più. Scuola, casa, studio, amici, birra, serata, donne, baci, delusioni, passioni, calcio, arbitro, sogni, allenamenti, prospettiva, libri, poesia, filosofia.

Ma qui manca la Vita. La Libertà ti permette di prenderti la Vita. La Libertà di camminare per la strada a testa alta. Di gridare silenziosamente a tutti “Io amo lei, e allora?”. La Libertà di guardare negli occhi n amico e dire “Sto male” e sentirti abbracciato nonostante gli errori e le cazzate che hai sparso per la strada. Eppure, per essere Liberi, per godere di questa aria pulita che sfonda le vie polmonari, per Vivere, ci vuole Coraggio. La Paura blocca soltanto. Non ti rende più responsabile, o consapevole. La Paura ti inchioda al muro. Ti incatena, come tutti quei rigidi schemi che hai sentito serrati alle caviglie per non so quanti anni ma che –solo ora- ti accorgi essere Freni. Freni, non Trampolini. Un Limite, non una Potenzialità.

C’è da levarsi questa maledetta Paura di dosso e buttarsi. Scrollarsi questo fardello di anelli in catena. Smettere di essere luridi melmosi vigliacchi. E togliersi la Paura della Vita che entra dentro. Lasciarla fluire, come un fiume verso il mare, come l’amore di una mamma. In semplicità, lasciar fare alla Vita. Accettare quello che è e quello che deve essere. Fosse anche prendere quel viso d’angelo e abbandonarlo sulle rive del fiume. Fosse anche la traumatica lucidità di una ormai consapevole inadeguatezza. Intrecci di rapporti fra cose in sé bene o male sane, ma fra loro quasi patologicamente soffocate.

C’è da distruggere le catene e guardarla, questa Vita. Con occhi lucidi, forse. Piangendo, ci sta. Ma senza quella isterica brama di legislatore del mondo che tutto vuol comandare, che tutto vuol far quadrare.

A volte il cerchio non quadra. Maledetta geometria di punti infinitamente accostati. Ti avanza un pezzo o ti manca. Fatto sta che dal cerchio non esce un quadrato. Al massimo un ellisse. Un orrendo sfigurato ellisse che si presenta come l’ufficiale attestazione del fallimento dell’opera. E ti ostini a far tornare i punti. A vedere un’infinita catena di piccoli punti che resta vanamente incompiuta nel suo spazio a due dimensioni.

A due dimensioni. Già con due a volte il gioco si fa duro. Figurarsi in tre. Non immaginiamoci la quarta, lo spazio-tempo e altri patologici parenti simili. Sistemare la vita in x e in y è già fin troppo complesso. Il resto, lasciamolo stare. Ma forse c’è da cessare la nostra scellerata attività di matematici contabili. Non c’è nemmeno da provarci. E questo non per mancanza di capacità, ma per un dovere necessario di sopravvivenza. Per salvarsi la Vita.

Cercare quella totale Libertà che ti apre alla Vita, che ti mette fragile e nudo di fronte al fluire di un’esistenza caotica. Lasciare che la Vita si compia nella semplicità delle nostre azioni. “Fare, mentre la Vita si compie” –appunto-. Accompagnarla in silenzio, senza pretendere niente. Liberare Noi e la Vita da ogni schema. Leggerla come un libro di poesie, innamorandosi di immagini, odiando suoni stonati, contestando arrogantemente la sistemazione delle parole. Ma mai pretendere di spiegare tutto. Lasciarsi sfiorare dalla “percezione d’infinito” che ha toccato i giorni. Lasciarsi accarezzare, passivamente. Il resto verrà e si snocciolerà da sé come riso che cade da un vaso: nessun chicco si chiede se riuscirà a sfociare. Sa solo che –prima o poi- troverà la Via, come tutti gli altri. E finirà al Suo posto.

Certo, ci vuole Leggerezza e Prospettiva. Condizioni di fondo indispensabili –per ora- ancora non raggiunte. Ma –anche su quello- possiamo lavorare, con pazienza. Intanto c’è da capire se il profumo di questa totale Libertà fa per noi oppure ci spaventa così tanto da portare le nostre caviglie a rinchiudersi di nuovo in antiche catene d’acciaio.

giovedì 4 marzo 2010

Rallentare, e fermarsi

I Treni viaggiano troppo rapidi. Tutta quella velocità, non si sopporta. Sempre il posto finestrino, sempre la scarpa poggiata sul condotto di areazione. Sempre un I-Pod nelle mano e due arterie che sfociano nelle orecchie. Pare ideale come condizione di quiete. Pare.

Ci si dimentica degli Occhi. Sempre. Preoccupati di tenere il culo al caldo ci si dimentica degli Occhi. La parte migliore. La più fragile. Abbandonati a loro stessi, gli Occhi si ritrovano bombardati da un susseguirsi paranoico di immagini. Una dietro l’altra. Senza sosta. Continui cambi di colore, di luci, di passaggi bruschi. Delineano i contorni ma non riescono mai ad afferrare il dettaglio, il particolare, la caratteristica. Sono nati per questo meticoloso mestiere. Lì, invece, si esaltano per la possibilità di avere tesori di finezze e –delusi- smarriscono ogni istante la loro passione. Sono svuotati della loro Speranza, della loro Prospettiva. Risucchiati nel vortice di un frenetico viaggio subiscono questa tortura, mentre intorno tutto prosegue la sua corsa.

E il problema non sarebbe così grosso se a soffrire fossero solo quelle due piccole luci. La fragilità della loro consistenza le espone per natura a gioie assolute, a macabri dolori. E’ il loro destino. C’è chi è nato per scalare montagne, chi per non uscire mai dal suo paese, chi per morire lottando contro il mondo. Gli Occhi, loro sono nati per essere Fragili. Una meravigliosa missione: accogliere la bellezza della vita nell’instabile consapevolezza della propria precarietà.

Con gli Occhi, si spia il paradiso e si sbatte sulla porta dell’inferno. Lucidi e sinceri raccontano la storia dei giorni al Cuore, chiuso nella stiva. Ed egli -teneramente avvolto nel suo purpureo mantello- chiede loro di descrivere le foglie, le cacche dei piccioni, i pianti dei bambini. Una disperata piangente richiesta, di innamorato ferito. Lui, che mai vede ma sempre e solo sente. Cieco fomentatore di una locomotiva che a tratti corre, a tratti sussulta.

Già, il Cuore e il Treno. Un destino per due. Separati dalla nascita. Tutti e due intrecciati a quell’inevitabile e stramaledetto compito di macinare metri su metri, e poi fermarsi di botto, e poi ripartire, e poi –ancora- scivolare via. Quel loro essere disarmati davanti a visitatori sconosciuti che dipingono le loro pareti con colori sgargianti. Solo che il Treno –a volte- riesce a difendersi, ripartendo. Il Cuore no: si prende tutto, carezze e graffi, abbracci e offese, persino colpi di fulmine. Immobile. Subisce ma non si spaventa più di tanto. Accoglie tutto con Prospettiva, gettando lo sguardo oltre l’orizzonte, facendo tesoro delle scosse che lo destabilizzano. Solo una cosa non sopporta: la Mancanza d’Aria. Quella non la regge. Si gonfia a dismisura fino a esplodere, schizzando verso ogni dove gocce dense, gocce che restano impresse sui muri. Gocce di sangue. La Mancanza d’Aria lo annichilisce, lo fa impazzire. Pompa a raffica, senza sosta, senza rallentare, aumentando a dismisura i battiti e la pressione. Ad ascoltarlo pare emettere un battito unico, continuo.

E quell’Ansia, quell’Angoscia priva di Prospettiva gli arriva dritta dritta dagli Occhi. Da quella fonte immensa di accoglienza di luci, di immagini, di volti. Gli giunge da loro, i suoi narratori di magie. E’ un’amicizia che ogni tanto s’incrina, sferzata da un’ipertrofica produzione di sensazioni. Succede alle volte. Succede sui treni, quando gli Occhi viaggiano alla velocità della luce in cerca di un punto fermo a cui rubare dettagli. Succede davanti ai Volti che non si spiegano, ma restano sempre aggrovigliati nella misteriosità dell’incertezza. Succede sotto i Muri, quando gli occhi smarriscono la Prospettiva e cercano nell’omogeneità del cemento un dannato punto di fuga. Succede, bisogna prenderlo con leggerezza. Litigarci non aiuta, anzi porta solo affanno. E il Cuore spasima, e gli Occhi lacrimano dispiaciuti.

C’è solo da rallentare a volte. E fermarsi. E guardare i particolari degli occhi di un bimbo, dei suoi canini caduti in prima linea, della sua voce squillante. Perdersi nel sorriso nascosto di una donna che ti ama, o vorrebbe farlo, o non lo vorrebbe affatto. Sorridere sulle righe di un poeta malinconico, o tremendamente disperato. Da fermi, con i piedi per terra e la schiena ben dritta. In un posto aperto, dove si possa respirare il profumo dell’aria e la puzza di umido che sale dall’erba. Rallentare, tutto qui. E aspettare che il Cuore rientri nella sua ritmata regolarità e gli Occhi si asciughino, ma non troppo.

La Velocità mi mette in affanno. O la mancanza di Prospettiva. Fra le due, non saprei dire.

martedì 2 febbraio 2010

Seduti sul Confine

Certe volte ce ne stiamo sul Confine, a guardare i treni passare, con dentro la Vita che scalpita. Ci sono giorni in cui dondoliamo le gambe come bimbi innocenti, col sorriso sulla bocca, con le mani sotto le cosce, seduti su quel ramo sospeso. Ci sono giorni in cui ci raggomitoliamo sulle ginocchia, abbracciandoci forte le spalle, a testa bassa. Quando diluviano goccioloni, o quando il vento gelido dell’est ci frusta le orecchie. Tentiamo di ripararci, mentre da lassù osserviamo la Vita che viaggia. La Vita che urla, freme, dorme, esplode e subito si placa. La Vita che si muove, mentre noi stiamo fermi, fermi su quel ramo. Fermi, ad osservare. Spettatori stranieri. Spettatori alienati.

Alle volte è anche un gran bel vedere da lassù. Panorama, grandi monti, bei fiumi sì, ma c’è altro. C’è un Profumo che s’intravede, un Suono che s’assapora. C’è un Qualcosa-Di-Più che va al di là. Al di là “di cosa” non saprei dire. Intuisco solo che quel Qualcosa ha il coraggio di andare oltre, di frantumare quel sottile alone di umidiccio incrostato sulla pelle del mondo. Ed è bello, meravigliosamente bello riuscire a vederlo, di sfuggita. E poi perderselo, lasciarselo sfuggire per ricercarlo nei volti dei bambini, in un fiore che sboccia, nel sorriso di una donna. Farselo scivolare via dalle mani, e rincorrerlo nelle piazze, nelle case, là dove la Vita prende corpo.

C’è solo da fare un Salto, un piccolo grande Salto per scendere giù da quel ramo. Scendere giù e cominciare a rincorrere quella Vita intravista, ma nascosta. Non è una roba così semplice, così immediata: si ha paura di farsi male, a gettarsi dall’alto. Alla fine è comodo restarsene sul ramo, a guardare la Vita da lontano. E’ come stare un’intera esistenza a guardare film, su film, su film. Miliardi di storie passerebbero da quegli occhi sognanti, ma mai nessuna volerebbe via dalle dita della mano, attraverso linee curve d’inchiostro. Una gran tristezza.

Ma non sempre si ha la forza, l’audacia di andare a ri-cercare quella Vita smarrita. Ci vuole faccia tosta, incoscienza per mettersi a correre come bambini in una via che pullula di persone. E lì cercarla spasmodicamente, guardare dietro sorrisi, dietro coni di gelato che grondano liquefatti, dietro una paletta più grande della mano di una bionda fanciulla.

A volte si preferisce restare su quella Linea di Confine, su quel ramo sospeso fra Vita e Morte, fra Vivere e Non-Vivere. Si può rimanere una vita a coccolare semi mai piantati, ad ammirare la potenzialità irrisolta di uno spirito sublime. Si può contemplare la nostra ombra alle spalle, per gioco. Si può parlare alle nuvole con l’eleganza del condizionale e la saggezza del congiuntivo, ma non ci sarà mai un indicativo presente a renderci onore di quel che Siamo, e non di quel che Potremmo Essere. Non si può vivere una vita potenzialmente, per paura di saltare giù. Per paura di graffiarsi la coscienza e non dormire la notte. Per paura di vedere sgocciolare sullo stinco un denso rivo di sangue.

La Vita abita persino le Schifezze. Anzi, forse ama nascondersi proprio lì dentro. Lì, in quel dialettico tribolarsi di gioia e dolore, di pienezza e amarezza. E’ tutto un dinamico rimescolarsi in un singolo momento che sa di eterno. E gli occhi, gli occhi lo gridano con orgoglio. Gli occhi che hanno corso, faticato, ansimato fino allo stremo e che ora riposano in un cantuccio a leccarsi le ferite. Quella è Vita Vera, Vita incontrollata, libera da catene. Quella è Vita Consapevole, capace di accettare l’idillio e la caduta nella melma.

La Vita, per noi che la guardiamo da quel ramo sospeso fra cielo e terra, è solo una grigia pellicola di altri. Non sa di Altro, Appartiene ad altri. Non a noi, ad altri. Non è un “di più” ma un “di loro”. E basterebbe saltare giù, imprecando per il dolore dell’atterraggio, per rendersi conto che da quel ramo si può solo Guardare, senza mai Vivere.

mercoledì 6 gennaio 2010

La bottega del Pulitore di Vasi

Arte complicata quella di pulire i Vasi Preziosi. Esige attenzione alla fragilità, cura dei dettagli, pazienza nell’applicazione. Non è un mestiere per uomini agitati, tantomeno per sbadati cialtroni. Astenersi i frettolosi, i violenti, i rabbiosi, gli irascibili. Solo chi ha molto tempo e una bella dose di Prospettiva è invitato all’apprendimento.

In quella antica bottega non c’è nessun maestro. Solo un Vaso che ti aspetta. Uno e un solo Vaso fragile, magicamente prezioso. Rivestito da una spessa patina di polvere opaca. Varchi il portone antico e, avvolto dall’acre odore di polvere e muffa, lo intravedi già sul tuo bancone. Di fianco lo straccio morbido su cui studiare l’arte. Sotto, un cestino: lì vanno lasciati riposare i cocci. I cocci rotti.

Non c’è nessun orologio in quella bottega. Nessuna luce artificiale. Solo qualche finestrone esposto a sud, anch’esso polveroso. Il silenzio regna in tutta la sala. Ogni operaio lavora concentrato sul suo piccolo Vaso di creta.

Mani alienate dal ripetitivo lentissimo movimento si bloccano solo al sordo frastuono di superfici che s’incrinano. Ognuno –in cuor suo- increspa amaramente la bocca al secco ticchettio di un patrimonio perduto. Una sorta di preghiera comunitaria da nessuno recitata. Un abbraccio ad un sogno infranto. Un secondo, un attimo soltanto. Poi il lavoro ricomincia, tale e quale. Ognuno per la sua strada.

Nessuno ha un contratto, un periodo preciso, un termine del lavoro. Non ci vuole fretta, l’ho già detto. Si può restarvi chiusi per giorni, per mesi, per anni. Persino tutta la vita, se si è abbastanza ostinati e pazienti. C’è anche chi innalza la lucentezza del proprio Vaso a motivo d’esistenza. Gente che ha perso la testa, che ha salutato tutto e tutti, chiudendosi in quell’antica stanza e vivendo di pane e acqua. E un piccolo riposino notturno aggomitolato su una balla di paglia accanto al proprio banco. Una vita meschina, per il mondo. Una vita d’amore per quel suo Vaso, per lui. Punti di vista –come al solito-.

Ho visto uscire da quel misterioso luogo uomini grigi, ripiegati in sé. Uomini affranti, delusi, feriti. Uomini che stavano male: qualcuno aveva perso in un attimo il puntuale lavoro di anni. Chissà cosa si senta quando centimetri lucidati da ore di meticoloso lavoro vanno in frantumi. Tic. E tutto crolla su sé stesso, mescolandosi a quei pezzetti ancora pregni di polvere, sporchi. Dev’essere difficile accettare di aver fallito senza giudicarsi sbagliati neanche un po’. Ti viene da domandarti se non sei stato troppo irruento, troppo frettoloso, poco dolce, poco tenero. Qualcosa devi pur aver sbagliato. Un passo falso c’è stato.

O forse quel Vaso –talmente prezioso da raccogliere in sé un’anima- non voleva farsi accarezzare. Forse era già incrinato, già intaccato. E l’occhio disattento non ha avuto abbastanza dolcezza in quel preciso punto, devastando tutto il resto. Che peccato.

Vorrei un giorno imparare quella magica Arte e non esserne più mero spettatore. Vorrei conoscere quel Vecchio che accoglie speranzosi giovani nella sua bottega. Chissà se è simpatico oppure il solito rompicoglioni maledettamente saggio. E magari chiedergli un piccolo prezioso Vaso da lucidare, e pulire, e far risplendere. Forse mi accoglierà, o forse mi butterà fuori a calci nel sedere, inveendo contro la mia sgraziata mano tremolante. Non saprei.

Certo è che –da questa panchina nel giardino di fronte alla bottega- non imparerò mai quell’antica sapienza. C’è da entrare, e lavorare, rischiando l’equilibrio su quel sottile filo fra delusione e felicità.