mercoledì 23 giugno 2010

Leggere i Fondi del Caffè

Sapere leggere i Fondi del Caffè non è un’arte: è una Disgrazia. Una triste maledetta Disgrazia. Per anni si spera di apprendere questa veggente abilità di predizione del futuro. Sogniamo di poterci capire il mondo, di imparare a leggerlo e –di pari passo- affrontarlo con le ossa robuste. Cazzate. Tutte cazzate.

Non serve a niente Intuire segreti nel grumo di polvere e liquido che sguazza in fondo ad una tazzina leggermente inclinata. Neanche farla decantare un po’ aiuta. E nemmeno stuzzicarla con un cucchiaino.

Tanto –alla fine- ci vogliono sempre i coglioni per Accettare quello che ha da dirti. Non c’è tanto da girarci intorno. Accettare o ricostruire fantasiosamente una verità scomoda, annacquandola. E guardare in faccia la realtà non mi sembra il mestiere più felice di questo mondo. Anzi. Si cerca sempre di fare di tutto per ricamare un sottile filo d’oro sulla vela di un vascello in partenza. Illudendosi –forse- che ammirare i raggi del sole splendenti su quell’oro renderà l’Orizzonte meno cinico. A Lui non importa, non ti guarda in faccia, non avrà pietà di te. Fagociterà quella Nave, come ha fatto con tante altre, come ha fatto con tanti altri.

Quindi a che serve quella straordinaria capacità di leggere i Fondi del Caffè? A niente. Ti schiaffa soltanto nel fango. Ti conficca le dita fra i capelli e con violenza ti affoga in quella melma soffocante. Complica la tua esistenza, strattonandola fra l’inevitabile Verità e la speranza di un tuo eccezionale Errore. Invece no. Chi legge in fondo alla Tazzina non ha il Diritto di sbagliarsi. Non può fermarsi e tutto ad un tratto annullare quella sua tragica eccezionale abilità. Si resta lì, fermi, ad orecchie basse e Si Legge. Senza fiatare. Senza poter fare altrimenti. In silenzio, sottomessi.

Forse l’ammirazione di qualche stolto passante potrà illudere che tutto ciò sia un Talento e non una Disgrazia. Gli applausi e i complimenti danno alla testa, offuscano gli occhi. La Specialità di una diversa umanità non implica certo una Fortuna, quanto –piuttosto- una maledetta Sfiga.

La Realtà –sia chiaro- resta quella che è, sebbene sia sempre il nostro apparato percettivo a filtrarci il nostro essere nel mondo. Prima o poi –comunque- veniamo a scontrarci con le mura di cinta delle nostre possibilità d’azione. Ma –a volte- credo che l’Incoscienza sia una beata virtù. O forse dovrei chiamarla Concretezza, Pragmatismo, o banalmente Semplicità. Quella Semplicità intrisa di Presente che non porta ad andare oltre, cercando ciò che sarà e come sarà. Quella leggerezza data dall’assenza di Ansia, di Complessità, di Complicatezza. Quel camminare su una nuvoletta grigia, senza rendersi conto di quello che passa. Lasciando scorrere tutto.

A volte maledico tutto questo mio costitutivo Pensare. Tutto questo mio Sentire. A volte lo odio proprio.

E ogni volta prendo il Caffè. Provo a non leggere niente. Quasi mai ci riesco.

domenica 2 maggio 2010

Quei maledetti Cinque Minuti

Arriva un momento in cui tutto si fa lucido, chiaro. Nella testa, tutto lì dentro. Vedi la scena, l’obiettivo, dove devi e vuoi arrivare. Non è troppo piacevole, sia chiaro: c’è qualcosa sullo stomaco che si annoda, un viluppo che pesa e svuota. C’è Paura di quella Consapevolezza nitida che tanto incoraggia ma che –sotto sotto- annienta la cognizione di causa del tutto.

Fatto sta che quell’improvvisa chiarezza ti infonde tanta determinazione. Sei deciso, quasi duro, secco. Sai di doverti imporre e lo vuoi, ne sei convinto. Hai una carica addosso talmente effervescente da farti fremere le vene. Vorresti andare e spaccare. Velocemente. E non per volontà di decisione chiara e distinta, ma –forse- più per paura di perdere tutta quella carica. Perché forse quella carica non è poi così decisa. Lo senti che qualcosa non è così definito, chiaro. Soffochi però questa timida voce come un fastidioso ribelle anarchico. Un sovversore dell’ordine costituito. Lo odi e lo pesti a sangue. Ti chiedi chissà perché ci sia sempre una voce che sconquassa la perfetta stabilità di un sistema di idee. Ma –inevitabile maledizione della Vita- arriva un giorno in cui fogli perfettamente conservati vengono sgualciti da una rabbiosa chiusura di pugno. Ma –in ogni caso- il ribelle viene epurato. Radiato, esiliato là dove non può incrinare alcuna decisione. O forse l’ha già fatto. E così ti avvicini a ciò che devi fare. Non è difficile: bastano solo cinque minuti. Cinque maledetti minuti. Il semplice e lineare tempo necessario a introdurre il discorso, argomentarlo e concludere con una bella decisione. Secco e determinato.

E invece no. Troppo semplice.

La preparazione è perfetta: nulla da eccepire. Le motivazioni, pure. Così come la grinta. Tutto stramaledettamente preparato nei minimi dettagli. L’unica cosa che non avevi previsto –e che non avresti mai potuto prevedere- è Lei. Lei che arriva, venendo a salutarti. Due bacini, un “come stai” di situazione. Lei che si siede e ti guarda e ancora ti chiede qualcosa. Ma tu sei già a pensare allo schema, alla scaletta, a Dove vuoi arrivare. Non la ascolti. Non c’è verso.

Poi cominci a discorrere, cercando l’occasione per attaccare la fascia e crossare nel mezzo la propria determinata presa di posizione. Ed ecco la Tragedia. L’inevitabile fatalità che disintegra ogni possibile sicurezza.

Lei ti guarda, mentre parli. Lei ti guarda e Ti Sorride.

Eccola lì la Tragedia. Tutto si sfalda, evapora: puff! E te ne stai immobile a guardare la scena preparata che letteralmente se ne vola via. Te –ormai- sei di nuovo in quel patologico flusso di legami e attrazioni in cui puoi solo continuare ad annaspare.

Non è colpa Sua, non lo fa apposta. Sia mai! Non c’è nessun progetto maligno. Lei E’ così, non costruisce niente. E’ il normale scorrere di Vita che si compie. Ha una potenza che va al di là delle capacità maschili di gestione della situazione.

Tu non puoi far altro che subirla, accettarla con le labbra che si increspano. Con un sorriso che lì vi spunta. E –intanto- la conversazione procede, tutto rientra nelle guide. Tutto va avanti. Pare nel migliore dei modi. Pare.

lunedì 26 aprile 2010

Un Solo Senso alla volta -uno soltanto-

Un solo Senso alla volta. Uno soltanto. Ne abbiamo cinque, d’accordo. Qualcuno dice che la molteplicità di impressioni di una medesima cosa aiuta nella conoscenza di questa. Non credo.

Non siamo capaci di gestirli: ci sfuggono di mano, vanno per conto proprio, brancolando a caso in un oceano di sensazioni spesso sfuggenti, spesso mutevoli. E noi perdiamo il fulcro della nostra ricerca percettiva tentando di organizzare materiale che arriva da naso, occhi, orecchie. Ascoltiamo la musica incantandoci nell’armonico movimento di archi e corde. Contempliamo l’andarsene di un tramonto mentre auto sfrecciano alle nostre spalle, mentre un telefono squilla nella nostra tasca. Vaghiamo spaesati dalla cinquina di scintille che stimolano il nostro cervello. A bocca aperta, senza capirci niente.

E questo non per maledizione divina, tantomeno per incapacità strutturali. E’ solo una mancanza di applicazione. Tenace e costante applicazione. Arrogantemente ci consideriamo padroni dei nostri sensi, utilizzatori di livello sublime dei nostri strumenti in dotazione, maestri della percezione sensoriale. C’è invece da imparare con pazienza a riconoscere ogni singolo dettaglio che arriva alla nostra mente, senza limitarsi ad una constatazione approssimativa.

E –per apprendere questa precisione- occorre concentrarsi. Semplicemente. Non è un lavoro troppo complesso, né tantomeno difficile. Basta spegnere tutti gli altri sensi . Tutti gli altri, che in quel preciso momento sono superflui. Non mi spingo a dire che sono inutili: sono soltanto superflui. Un Plus che può certamente connotare meglio quel che si percepisce, ma che –spesso- distoglie l’attenzione dall’Essenza di ciò che cerchiamo. E così imparare ad ascoltare le note di un brano ad occhi chiusi, immobili, con le mani sotto il mento. Imparare a contemplare le colline inondate di primavera tappandosi le orecchie, distesi in un angolo di un prato. Assaporare il profumo di un olio che è appena stato aperto o la dolcezza di una carezza che ti sfiora il volto.

Focalizzare la ricerca percettiva verso uno e un solo apparato sensoriale. Il tutto al fine di cogliere sempre più dettagli, affinando progressivamente la precisione e –di pari passo- la relativa emozione. Potenziare con l’allenamento la propria personale capacità di conoscere il mondo, di amarlo, di apprezzarlo. Anelare a emozioni da toglierti il fiato, da lasciarti sgorgare una lacrima solitaria da palpebre socchiuse.

E così perdersi in mezzo alla platea di un Teatro. Sentire archi che volano da una parte all’altra, ondeggiando fra tocchi rapidi e fugaci e abbracci lunghi due intere battute. Cogliere le grida gravi dei contrabbassi che si nascondono dietro un angolo, timidamente. E l’intera atmosfera carezzata dal duettare di tasti di pianoforte che da destra e sinistra si raccontano storie di paesi lontani, di sogni proibiti, di amori inseguiti.

Il tutto ad Occhi Chiusi. Solo e soltanto ad Occhi Chiusi.

domenica 28 marzo 2010

Libertà, Sistemazione e Vita che scorre

Ci vuole Coraggio per sopportare di essere Liberi. Liberi dai condizionamenti degli altri, liberi dalle stupide paure che avvinghiano i giorni.

E’ molto più semplice restare in catene. Sebbene molto meno saporito. Le guardie ti indicano cosa fare, la tua giornata è scandita dal geometrico susseguirsi di azioni preconfezionate. Tu devi solo seguire quello schema. Niente di più. Scuola, casa, studio, amici, birra, serata, donne, baci, delusioni, passioni, calcio, arbitro, sogni, allenamenti, prospettiva, libri, poesia, filosofia.

Ma qui manca la Vita. La Libertà ti permette di prenderti la Vita. La Libertà di camminare per la strada a testa alta. Di gridare silenziosamente a tutti “Io amo lei, e allora?”. La Libertà di guardare negli occhi n amico e dire “Sto male” e sentirti abbracciato nonostante gli errori e le cazzate che hai sparso per la strada. Eppure, per essere Liberi, per godere di questa aria pulita che sfonda le vie polmonari, per Vivere, ci vuole Coraggio. La Paura blocca soltanto. Non ti rende più responsabile, o consapevole. La Paura ti inchioda al muro. Ti incatena, come tutti quei rigidi schemi che hai sentito serrati alle caviglie per non so quanti anni ma che –solo ora- ti accorgi essere Freni. Freni, non Trampolini. Un Limite, non una Potenzialità.

C’è da levarsi questa maledetta Paura di dosso e buttarsi. Scrollarsi questo fardello di anelli in catena. Smettere di essere luridi melmosi vigliacchi. E togliersi la Paura della Vita che entra dentro. Lasciarla fluire, come un fiume verso il mare, come l’amore di una mamma. In semplicità, lasciar fare alla Vita. Accettare quello che è e quello che deve essere. Fosse anche prendere quel viso d’angelo e abbandonarlo sulle rive del fiume. Fosse anche la traumatica lucidità di una ormai consapevole inadeguatezza. Intrecci di rapporti fra cose in sé bene o male sane, ma fra loro quasi patologicamente soffocate.

C’è da distruggere le catene e guardarla, questa Vita. Con occhi lucidi, forse. Piangendo, ci sta. Ma senza quella isterica brama di legislatore del mondo che tutto vuol comandare, che tutto vuol far quadrare.

A volte il cerchio non quadra. Maledetta geometria di punti infinitamente accostati. Ti avanza un pezzo o ti manca. Fatto sta che dal cerchio non esce un quadrato. Al massimo un ellisse. Un orrendo sfigurato ellisse che si presenta come l’ufficiale attestazione del fallimento dell’opera. E ti ostini a far tornare i punti. A vedere un’infinita catena di piccoli punti che resta vanamente incompiuta nel suo spazio a due dimensioni.

A due dimensioni. Già con due a volte il gioco si fa duro. Figurarsi in tre. Non immaginiamoci la quarta, lo spazio-tempo e altri patologici parenti simili. Sistemare la vita in x e in y è già fin troppo complesso. Il resto, lasciamolo stare. Ma forse c’è da cessare la nostra scellerata attività di matematici contabili. Non c’è nemmeno da provarci. E questo non per mancanza di capacità, ma per un dovere necessario di sopravvivenza. Per salvarsi la Vita.

Cercare quella totale Libertà che ti apre alla Vita, che ti mette fragile e nudo di fronte al fluire di un’esistenza caotica. Lasciare che la Vita si compia nella semplicità delle nostre azioni. “Fare, mentre la Vita si compie” –appunto-. Accompagnarla in silenzio, senza pretendere niente. Liberare Noi e la Vita da ogni schema. Leggerla come un libro di poesie, innamorandosi di immagini, odiando suoni stonati, contestando arrogantemente la sistemazione delle parole. Ma mai pretendere di spiegare tutto. Lasciarsi sfiorare dalla “percezione d’infinito” che ha toccato i giorni. Lasciarsi accarezzare, passivamente. Il resto verrà e si snocciolerà da sé come riso che cade da un vaso: nessun chicco si chiede se riuscirà a sfociare. Sa solo che –prima o poi- troverà la Via, come tutti gli altri. E finirà al Suo posto.

Certo, ci vuole Leggerezza e Prospettiva. Condizioni di fondo indispensabili –per ora- ancora non raggiunte. Ma –anche su quello- possiamo lavorare, con pazienza. Intanto c’è da capire se il profumo di questa totale Libertà fa per noi oppure ci spaventa così tanto da portare le nostre caviglie a rinchiudersi di nuovo in antiche catene d’acciaio.

giovedì 4 marzo 2010

Rallentare, e fermarsi

I Treni viaggiano troppo rapidi. Tutta quella velocità, non si sopporta. Sempre il posto finestrino, sempre la scarpa poggiata sul condotto di areazione. Sempre un I-Pod nelle mano e due arterie che sfociano nelle orecchie. Pare ideale come condizione di quiete. Pare.

Ci si dimentica degli Occhi. Sempre. Preoccupati di tenere il culo al caldo ci si dimentica degli Occhi. La parte migliore. La più fragile. Abbandonati a loro stessi, gli Occhi si ritrovano bombardati da un susseguirsi paranoico di immagini. Una dietro l’altra. Senza sosta. Continui cambi di colore, di luci, di passaggi bruschi. Delineano i contorni ma non riescono mai ad afferrare il dettaglio, il particolare, la caratteristica. Sono nati per questo meticoloso mestiere. Lì, invece, si esaltano per la possibilità di avere tesori di finezze e –delusi- smarriscono ogni istante la loro passione. Sono svuotati della loro Speranza, della loro Prospettiva. Risucchiati nel vortice di un frenetico viaggio subiscono questa tortura, mentre intorno tutto prosegue la sua corsa.

E il problema non sarebbe così grosso se a soffrire fossero solo quelle due piccole luci. La fragilità della loro consistenza le espone per natura a gioie assolute, a macabri dolori. E’ il loro destino. C’è chi è nato per scalare montagne, chi per non uscire mai dal suo paese, chi per morire lottando contro il mondo. Gli Occhi, loro sono nati per essere Fragili. Una meravigliosa missione: accogliere la bellezza della vita nell’instabile consapevolezza della propria precarietà.

Con gli Occhi, si spia il paradiso e si sbatte sulla porta dell’inferno. Lucidi e sinceri raccontano la storia dei giorni al Cuore, chiuso nella stiva. Ed egli -teneramente avvolto nel suo purpureo mantello- chiede loro di descrivere le foglie, le cacche dei piccioni, i pianti dei bambini. Una disperata piangente richiesta, di innamorato ferito. Lui, che mai vede ma sempre e solo sente. Cieco fomentatore di una locomotiva che a tratti corre, a tratti sussulta.

Già, il Cuore e il Treno. Un destino per due. Separati dalla nascita. Tutti e due intrecciati a quell’inevitabile e stramaledetto compito di macinare metri su metri, e poi fermarsi di botto, e poi ripartire, e poi –ancora- scivolare via. Quel loro essere disarmati davanti a visitatori sconosciuti che dipingono le loro pareti con colori sgargianti. Solo che il Treno –a volte- riesce a difendersi, ripartendo. Il Cuore no: si prende tutto, carezze e graffi, abbracci e offese, persino colpi di fulmine. Immobile. Subisce ma non si spaventa più di tanto. Accoglie tutto con Prospettiva, gettando lo sguardo oltre l’orizzonte, facendo tesoro delle scosse che lo destabilizzano. Solo una cosa non sopporta: la Mancanza d’Aria. Quella non la regge. Si gonfia a dismisura fino a esplodere, schizzando verso ogni dove gocce dense, gocce che restano impresse sui muri. Gocce di sangue. La Mancanza d’Aria lo annichilisce, lo fa impazzire. Pompa a raffica, senza sosta, senza rallentare, aumentando a dismisura i battiti e la pressione. Ad ascoltarlo pare emettere un battito unico, continuo.

E quell’Ansia, quell’Angoscia priva di Prospettiva gli arriva dritta dritta dagli Occhi. Da quella fonte immensa di accoglienza di luci, di immagini, di volti. Gli giunge da loro, i suoi narratori di magie. E’ un’amicizia che ogni tanto s’incrina, sferzata da un’ipertrofica produzione di sensazioni. Succede alle volte. Succede sui treni, quando gli Occhi viaggiano alla velocità della luce in cerca di un punto fermo a cui rubare dettagli. Succede davanti ai Volti che non si spiegano, ma restano sempre aggrovigliati nella misteriosità dell’incertezza. Succede sotto i Muri, quando gli occhi smarriscono la Prospettiva e cercano nell’omogeneità del cemento un dannato punto di fuga. Succede, bisogna prenderlo con leggerezza. Litigarci non aiuta, anzi porta solo affanno. E il Cuore spasima, e gli Occhi lacrimano dispiaciuti.

C’è solo da rallentare a volte. E fermarsi. E guardare i particolari degli occhi di un bimbo, dei suoi canini caduti in prima linea, della sua voce squillante. Perdersi nel sorriso nascosto di una donna che ti ama, o vorrebbe farlo, o non lo vorrebbe affatto. Sorridere sulle righe di un poeta malinconico, o tremendamente disperato. Da fermi, con i piedi per terra e la schiena ben dritta. In un posto aperto, dove si possa respirare il profumo dell’aria e la puzza di umido che sale dall’erba. Rallentare, tutto qui. E aspettare che il Cuore rientri nella sua ritmata regolarità e gli Occhi si asciughino, ma non troppo.

La Velocità mi mette in affanno. O la mancanza di Prospettiva. Fra le due, non saprei dire.

martedì 2 febbraio 2010

Seduti sul Confine

Certe volte ce ne stiamo sul Confine, a guardare i treni passare, con dentro la Vita che scalpita. Ci sono giorni in cui dondoliamo le gambe come bimbi innocenti, col sorriso sulla bocca, con le mani sotto le cosce, seduti su quel ramo sospeso. Ci sono giorni in cui ci raggomitoliamo sulle ginocchia, abbracciandoci forte le spalle, a testa bassa. Quando diluviano goccioloni, o quando il vento gelido dell’est ci frusta le orecchie. Tentiamo di ripararci, mentre da lassù osserviamo la Vita che viaggia. La Vita che urla, freme, dorme, esplode e subito si placa. La Vita che si muove, mentre noi stiamo fermi, fermi su quel ramo. Fermi, ad osservare. Spettatori stranieri. Spettatori alienati.

Alle volte è anche un gran bel vedere da lassù. Panorama, grandi monti, bei fiumi sì, ma c’è altro. C’è un Profumo che s’intravede, un Suono che s’assapora. C’è un Qualcosa-Di-Più che va al di là. Al di là “di cosa” non saprei dire. Intuisco solo che quel Qualcosa ha il coraggio di andare oltre, di frantumare quel sottile alone di umidiccio incrostato sulla pelle del mondo. Ed è bello, meravigliosamente bello riuscire a vederlo, di sfuggita. E poi perderselo, lasciarselo sfuggire per ricercarlo nei volti dei bambini, in un fiore che sboccia, nel sorriso di una donna. Farselo scivolare via dalle mani, e rincorrerlo nelle piazze, nelle case, là dove la Vita prende corpo.

C’è solo da fare un Salto, un piccolo grande Salto per scendere giù da quel ramo. Scendere giù e cominciare a rincorrere quella Vita intravista, ma nascosta. Non è una roba così semplice, così immediata: si ha paura di farsi male, a gettarsi dall’alto. Alla fine è comodo restarsene sul ramo, a guardare la Vita da lontano. E’ come stare un’intera esistenza a guardare film, su film, su film. Miliardi di storie passerebbero da quegli occhi sognanti, ma mai nessuna volerebbe via dalle dita della mano, attraverso linee curve d’inchiostro. Una gran tristezza.

Ma non sempre si ha la forza, l’audacia di andare a ri-cercare quella Vita smarrita. Ci vuole faccia tosta, incoscienza per mettersi a correre come bambini in una via che pullula di persone. E lì cercarla spasmodicamente, guardare dietro sorrisi, dietro coni di gelato che grondano liquefatti, dietro una paletta più grande della mano di una bionda fanciulla.

A volte si preferisce restare su quella Linea di Confine, su quel ramo sospeso fra Vita e Morte, fra Vivere e Non-Vivere. Si può rimanere una vita a coccolare semi mai piantati, ad ammirare la potenzialità irrisolta di uno spirito sublime. Si può contemplare la nostra ombra alle spalle, per gioco. Si può parlare alle nuvole con l’eleganza del condizionale e la saggezza del congiuntivo, ma non ci sarà mai un indicativo presente a renderci onore di quel che Siamo, e non di quel che Potremmo Essere. Non si può vivere una vita potenzialmente, per paura di saltare giù. Per paura di graffiarsi la coscienza e non dormire la notte. Per paura di vedere sgocciolare sullo stinco un denso rivo di sangue.

La Vita abita persino le Schifezze. Anzi, forse ama nascondersi proprio lì dentro. Lì, in quel dialettico tribolarsi di gioia e dolore, di pienezza e amarezza. E’ tutto un dinamico rimescolarsi in un singolo momento che sa di eterno. E gli occhi, gli occhi lo gridano con orgoglio. Gli occhi che hanno corso, faticato, ansimato fino allo stremo e che ora riposano in un cantuccio a leccarsi le ferite. Quella è Vita Vera, Vita incontrollata, libera da catene. Quella è Vita Consapevole, capace di accettare l’idillio e la caduta nella melma.

La Vita, per noi che la guardiamo da quel ramo sospeso fra cielo e terra, è solo una grigia pellicola di altri. Non sa di Altro, Appartiene ad altri. Non a noi, ad altri. Non è un “di più” ma un “di loro”. E basterebbe saltare giù, imprecando per il dolore dell’atterraggio, per rendersi conto che da quel ramo si può solo Guardare, senza mai Vivere.

mercoledì 6 gennaio 2010

La bottega del Pulitore di Vasi

Arte complicata quella di pulire i Vasi Preziosi. Esige attenzione alla fragilità, cura dei dettagli, pazienza nell’applicazione. Non è un mestiere per uomini agitati, tantomeno per sbadati cialtroni. Astenersi i frettolosi, i violenti, i rabbiosi, gli irascibili. Solo chi ha molto tempo e una bella dose di Prospettiva è invitato all’apprendimento.

In quella antica bottega non c’è nessun maestro. Solo un Vaso che ti aspetta. Uno e un solo Vaso fragile, magicamente prezioso. Rivestito da una spessa patina di polvere opaca. Varchi il portone antico e, avvolto dall’acre odore di polvere e muffa, lo intravedi già sul tuo bancone. Di fianco lo straccio morbido su cui studiare l’arte. Sotto, un cestino: lì vanno lasciati riposare i cocci. I cocci rotti.

Non c’è nessun orologio in quella bottega. Nessuna luce artificiale. Solo qualche finestrone esposto a sud, anch’esso polveroso. Il silenzio regna in tutta la sala. Ogni operaio lavora concentrato sul suo piccolo Vaso di creta.

Mani alienate dal ripetitivo lentissimo movimento si bloccano solo al sordo frastuono di superfici che s’incrinano. Ognuno –in cuor suo- increspa amaramente la bocca al secco ticchettio di un patrimonio perduto. Una sorta di preghiera comunitaria da nessuno recitata. Un abbraccio ad un sogno infranto. Un secondo, un attimo soltanto. Poi il lavoro ricomincia, tale e quale. Ognuno per la sua strada.

Nessuno ha un contratto, un periodo preciso, un termine del lavoro. Non ci vuole fretta, l’ho già detto. Si può restarvi chiusi per giorni, per mesi, per anni. Persino tutta la vita, se si è abbastanza ostinati e pazienti. C’è anche chi innalza la lucentezza del proprio Vaso a motivo d’esistenza. Gente che ha perso la testa, che ha salutato tutto e tutti, chiudendosi in quell’antica stanza e vivendo di pane e acqua. E un piccolo riposino notturno aggomitolato su una balla di paglia accanto al proprio banco. Una vita meschina, per il mondo. Una vita d’amore per quel suo Vaso, per lui. Punti di vista –come al solito-.

Ho visto uscire da quel misterioso luogo uomini grigi, ripiegati in sé. Uomini affranti, delusi, feriti. Uomini che stavano male: qualcuno aveva perso in un attimo il puntuale lavoro di anni. Chissà cosa si senta quando centimetri lucidati da ore di meticoloso lavoro vanno in frantumi. Tic. E tutto crolla su sé stesso, mescolandosi a quei pezzetti ancora pregni di polvere, sporchi. Dev’essere difficile accettare di aver fallito senza giudicarsi sbagliati neanche un po’. Ti viene da domandarti se non sei stato troppo irruento, troppo frettoloso, poco dolce, poco tenero. Qualcosa devi pur aver sbagliato. Un passo falso c’è stato.

O forse quel Vaso –talmente prezioso da raccogliere in sé un’anima- non voleva farsi accarezzare. Forse era già incrinato, già intaccato. E l’occhio disattento non ha avuto abbastanza dolcezza in quel preciso punto, devastando tutto il resto. Che peccato.

Vorrei un giorno imparare quella magica Arte e non esserne più mero spettatore. Vorrei conoscere quel Vecchio che accoglie speranzosi giovani nella sua bottega. Chissà se è simpatico oppure il solito rompicoglioni maledettamente saggio. E magari chiedergli un piccolo prezioso Vaso da lucidare, e pulire, e far risplendere. Forse mi accoglierà, o forse mi butterà fuori a calci nel sedere, inveendo contro la mia sgraziata mano tremolante. Non saprei.

Certo è che –da questa panchina nel giardino di fronte alla bottega- non imparerò mai quell’antica sapienza. C’è da entrare, e lavorare, rischiando l’equilibrio su quel sottile filo fra delusione e felicità.

lunedì 21 dicembre 2009

"Non abbiate Fretta: la Pazienza è tutto"

Il Gelo ci invita alla Pazienza. Senza troppe grida, mi sembra evidente. Se ne arriva silenzioso, col suo passo fermo, cadenzato. Se ne arriva col suo sacco di tela, dove una volta –forse- vi aveva trasportato delle patate, delle cipolle, o del terriccio. Ha l’aria di un vecchio saggio, di uno che la sa lunga sull’inverno, sui suoi malanni e sulle sue cure miracolose. Passa casa per casa, tenacemente lottando contro vecchi trattori che spalano neve e spargono sale. Soffia sui marciapiedi, sugli scalini, sui cestini, sulle auto, sugli addobbi. E –su tutti- stende una sottile patina di vitreo ghiaccio. Non è una cattiveria la sua. Certo, potremmo pensarlo, noi uomini. Potremmo persino imprecare contro di Lui e inveire, e sbuffare, e persino bestemmiare. Lui, con la sua pacatezza, certamente non ce lo vieterebbe. Preferisce starsene zitto nel suo silenzio, proseguendo in quel suo meticoloso lavoro di evangelizzatore dell’Inverno. E incassare gli insulti di tutti.

Ad ogni porta, in ogni vicolo, per ogni piazza lascia una piccola bottiglia. Di vetro. O meglio: pare vetro ma non è così solido. Non è neanche cristallo: si frantumerebbe. E’ di un materiale talmente strano che ai più viene già la paura di aprirla -figurarsi srotolare il biglietto in essa congelato-. Solo qualche uomo (adulto, sulla cinquantina) ha la curiosità di frugare nella cassetta delle lettere. Non teme una minaccia, o una nuova scoperta, o il nostalgico ricordo di un passato ormai passato. E’ curioso. E’ aperto, aperto alla Poesia.

Porta in casa quel piccolo messaggio donatogli dal bianco uomo saggio. Lo accosta alla stufa rovente, dove accanto riposa beatamente un cucciolo angelico. E piano piano, col calore, con la cura e la sua attenzione, la bottiglia si scioglie. Come Ghiaccio al Sole, per l’appunto. Strano gioco della Natura: il cuore si scioglie di fronte al gelo dell’inverno. Si balocca.

Intanto egli mette su un po’ d’acqua a scaldare: una buona camomilla in questa mattina di dicembre non guasta. Nell’attesa egli si perde alla finestra, gettando l’occhio in quel punto poco prima e poco dopo l’orizzonte. Noi uomini chiamiamo questo gesto “incantarsi”. Come al solito siamo imprecisi, arruffoni direi. Non è uno stupore, né tantomeno una contemplazione. E’ un rovesciarsi dentro di sé, per arrivare a toccare qualcosa che ci è sembrato di intravedere –paradossalmente- a migliaia di chilometri. Ma inconsciamente ci rendiamo conto che tutto ciò è dentro di noi. E allo stesso tempo lontano da noi. O meglio: è laggiù, ed è quaggiù. E quella vista è il punto di contatto fra noi e ciò che è fuori di noi. Fra l’Io e il Mondo, per essere formali.

Quest’uomo, con i suoi capelli sempre più radi e sempre più grigi, non comprende tutto questo razzolare di sensazioni. Le sente. Le sente, e basta. Forse domani se ne renderà conto, chissà. Intanto l’acqua bolle, lo distrae col suo borbottio, riportandolo sulla dimensione consueta. Appoggia l’infuso sulla superficie dell’acqua calda, ascoltando pacatamente il suono dell’acqua che entra nei fiori profumati. In un attimo si ricorda della sua bottiglia, sempre poggiata sopra la stufa, per toglierle di dosso quella ragnatela di cristalli. La bottiglia però è sparita. Scomparsa, nel nulla. Sciolta, dissolta. Adesso, resta solo quel bigliettino di carta pesante che al calore della pietra lentamente si increspa. L’uomo, sempre più curioso e contento per la sorpresa mattutina, lo prende in mano. Lo apre. Lo srotola. Tutto con molta calma, è chiaro. La calligrafia con cui il pugno aveva solcato la carta è veloce, di chi ne aveva scritti tanti di questi foglietti. E’ tranquilla però: non frettolosa, non affannata. Tranquilla, posata. “Saggia” gli viene da pensare. La calligrafia di una vecchia figura, di quelle attente alla forma estetica. Di quelle attente Anche alla forma estetica.

Guardate la Pazienza con cui un Fiocco di Neve scende ad imbiancarvi. Non abbiate Fretta: la Pazienza è tutto. Buon Inverno”. Sono queste le parole custodite da quel timido bigliettino arrivato da chissà dove. Quest’uomo, così come tanti altri probabilmente, non aveva mai udito –o letto- queste parole. O forse le aveva colte ogni inverno della sua infanzia, ogni giorno in cui la Vita si fermava, congelata sotto il candore del cielo. In ogni caso le aveva dimenticate, da tempo. Un sorriso era apparso sul suo volto. Un sorriso che abbracciava i ricordi, le memorie, le tristezze di un’epoca passata che -in un secondo- si era riaffacciata innanzi a lui. Un momento. Quel tanto che bastava ad aiutarlo a riappropriarsi del profumo di quei giorni, di quella neve, di quell’inverno così rigido ma così meravigliosamente sorprendente. Si riavvicina alla finestra, con passo leggero. Si affaccia, osservando le auto che scivolano, gli uomini che imprecano, le signore che si lamentano. Solo i bimbi giocano, senza ripararsi. Il volto al cielo in segno di ringraziamento, le mani impastate nel gelo. Sorride l’uomo, di nuovo. Questa volta con un po’ di amarezza. Quando in lontananza si accorge di un vecchio, che porta a porta, distribuisce qualcosa per le case. Non è Babbo Natale, benché la barba lo possa rendere simile. In un attimo si incanta di nuovo, -o meglio- si rovescia nuovamente in sé, intuendo la sapienza di quell’uomo. Poi, con un cenno lo ringrazia, indossa il cappotto ed esce nel gelo, per gettare lo sguardo al cielo con occhi diversi.

giovedì 12 novembre 2009

Meschini o Disperati?!

Disperati. Piccoli Meschini Disperati. Noi.
Noi che usiamo la penna. Noi che svuotiamo decine di litri d’inchiostro su pagine innocenti. Pagine che non hanno fatto niente per meritarsi tutto questo rovesciamento di rabbia mista a sconforto.
Noi che cerchiamo di capire qualcosa di questa strana vita e –nel frattempo- vomitiamo addosso al mondo sproloqui privi di senso. Siamo dei Disperati, diciamocelo in faccia.
Non capiamo nulla di quello che sotto sotto succede. Dovremmo forse non provare neanche a guardare sotto la coperta. Dovremmo farci meno domande e procedere sul sentiero. Ordine e disciplina: in culo le obiezioni.
Invece No. Siamo Disperati a tal punto da cercare con spasmodica bramosia qualche stramaledetta Chiave di Volta. Una pietra che non si trova o che –forse- proprio non c’è. E intanto consumiamo ore a noi concesse nel frugare fra carte ingiallite, fra fogli volanti, fra appunti strappati.
Ma a noi non piace essere dei Disperati. Ci vediamo brutti e la gente poi ci guarda male. Noi vogliamo essere Normali, come tutti gli altri, come buona parte del mondo. –Ci sarà pure un Rimedio!- alla volte ci convinciamo. E così, nel disperato tentativo di Ordinare, sistemiamo il mondo, a parole nostre. Con quelle Parole che tanto amiamo e che tanto ci consolano quando qualcosa non va, quando il sole non è più qua.
In realtà –meschini- non ci rendiamo conto che è solo un futile banalizzare, un bieco piegare la Realtà a quello che è il nostro immediato Bisogno. Ordine, puro e assoluto Ordine. Sarebbe troppo semplice. Non si prende in giro il Caos. Quel nostro magniloquente “leggere il mondo” è solo una spregevole Creazione di un mondo a-nostra-immagine-e-somiglianza. La Vita non è così ordinata. Ma –a noi Disperati- così piacerebbe.
Raccontiamo di sentimenti, di amori, di gioie e dolori. Ma quel che scriviamo non è che una briciola del vorticoso travolgimento in cui si incunea la Vita. Il linguaggio non fa altro che esplicitare –banalizzando- quello che dentro di noi imperversa. Pagine e pagine e pagine per acciuffare un atomo dell’intera bomba che in un attimo davanti a noi esplode. Uno Sguardo, un Profumo, un Movimento, il Colore di una Pelle. Ci vorrebbero anni per mettere tutto su un foglio. Tutto quello che in Quell’Attimo ci ha travolto. Intanto ce lo saremmo già dimenticato –o reinventato-.
Anche questo è un viscido tentativo di sistemare ciò che in noi è totalmente ribaltato. Siamo questo: Caos Totale. Beati coloro a cui la disperazione ha risparmiato questa sorte. Noi, veri Disperati, tutte queste cose ci infastidiscono. Le sentiamo, ma non vorremmo sentirle. Le vediamo, ma non vorremmo accorgerci di loro. Vorremmo una vita in cui la sera si va a dormire tranquilli e la mattina ci si alza senza troppo domandare. Vorremmo Meno. O vorremmo Di Più. Non saprei quantificare.
Noi Disperati abbiamo bisogno del Tempo Ordinato. Vorremmo capire il principio di causalità. La reazione uguale e contraria che segue ogni azione. La logica conseguenza a tutto quel che ci accade. Peccato che il Tempo non sia Ordinato, né tantomeno cronologico. Il Tempo è un nostro Schema. Una geniale soluzione catalogatrice che abbiamo trovato per strutturare l’andare dell’esistere. Ci siamo salvati con l’idea del Tempo. Ci meritiamo un applauso.
E’ brutto rendersi conto di questo. Intuire che quello che ieri era un mondicino bellino e ritmato oggi si scopre un Ordine Fattizio. Non lo abbiamo ricevuto, non è sempre stato così. Lo abbiamo dato Noi quest’ordine. O così lo percepiamo. Per un altro tipo di essere –probabilmente- la cosa funziona in maniera ben diversa.
Indi per cui non c’è troppo da domandarsi se si vuole andare a letto e dormire. C’è da camminare in silenzio. Punto e basta. Quello che vediamo è una nostra Creazione, non facciamoci caso però.
Ma noi Disperati non siamo così. Probabilmente se le cose andassero come realmente vorremmo non staremmo qui a chiederci Perché. Viaggeremmo nella corrente come il resto degli uomini fa a giusta ragione. Però quest’Oggi a noi non piace. E ci fermiamo. Ci stacchiamo e guardiamo la trottola frullare da fuori, dall’esterno, rendendoci conto di essere su una giostra quasi impazzita. Impazzita come il Tempo, il che ti fa pensare all’inevitabile necessità di tutta questa pienezza insulsa. (Se il Tempo è pazzo, anche la Vita dovrà esserlo).
Noi, Disperati insoddisfatti, scappiamo nelle parole per ricevere due coccole. Per sentirsi importanti. Per avere un posto tutto nostro. Per redimere un’abulica esistenza ad un volgersi diverso. Siamo Rivoluzionari: usiamo la nostra arma per riprenderci un po’ di Dignità. Quella che vorremmo ci spettasse, forse.
Intanto –celatamente- piangiamo, beliamo, battiamo i piedi. Tutti. Chi parla di gioia, di bambini, di tristezza, di suicidi, di solitudini. Tutti piangiamo. Tutti siamo Disperati: ognuno ha le sue forme più o meno limpide di manifestarsi. Guardiamoci dritti nelle palle degli occhi e raccontiamoci quello che siamo. Cosa sentiamo. Cosa vogliamo. E l’inevitabile asimmetria fra desiderio e ottenimento.
Chi scrive è un Meschino. Un Disperato Meschino. Non andiamo a fargli troppi onori. Non incensiamolo troppo. In realtà conta meno di zero: il mondo sotto sotto lo sa.

domenica 1 novembre 2009

Ritornare a Fare -mentre la Vita si compie-

A volte ci arrivano Voci. Voci volanti per l’aria frizzante, trasportate da un forte vento da est che tutto spazza, che tutto solleva. Ci entrano nell’orecchio senza chiedere il permesso e cominciano a ronzare. Ronzare e fischiare. Ronzare e sibilare. Senza posa.
Non si capisce bene cosa sia, o cosa voglia dire. Avvertiamo solo un Movimento, una Spinta violenta che ci schioda dal nostro posticino. Una forza che ci turba, ma che ci scuote. Ci mette in cammino. Non si sa bene cosa voglia dire tutto questo casino in testa. E non c’è neanche da provare ad ascoltarla, sarebbe tempo perso. E’ entrata -punto e basta.
E qui non si tratta di fermarsi e provare a capire. Si butta via pezzi di vita. C’è da Fare, da Camminare. Non importa Cosa o Perché o Come: l’essenziale è Fare. Semplicemente.
E’ l’Azione che porta al movimento. La stasi ti lega ai paletti e ti lascia lì, come un cane abbandonato. Una trasformazione, un’illuminazione –se si vuole- arriva solo muovendosi, faticando, sudando. Ricordo sempre mister Brunino che saggiamente mi gridava “Se non vai Incontro alla palla non la vedi mai!”. Anche nel gioco del calcio c’è da Andare Incontro, c’è da Muoversi, da Farsi Vedere.
Con le botte è un po’ la stessa cosa. Ci si rialza ri-imparando a Fare. Ma non è strettamente necessario costruire o fabbricare qualcosa. Non parlo di un’idea di Fare come produzione utile o –comunque- sensata. Anche giocare con un bimbo, prepararsi un dolce, correre con un cane è Fare.
Fare è tutto ciò che ci smura dalla nostra malinconica poltrona e ci sbatte fuori di casa, nel mondo. Fare ci richiede impegno, ci mette in gioco, ci chiede di accendere la testa.
Non necessariamente si tratta di cose prettamente materiali. Non necessariamente. Un po’ di pragmatica attività aiuta infatti a riscoprire la Concretezza della Vita. Impastarsi le mani nella farina. Pulire i vetri di casa. Scrivere una lettera ad un amico. Cercare una Poesia. Son cose piccole, semplici, forse futili. Ma son queste che ci fanno smuovere, che restituiscono dinamismo ad un’abulica quotidianità infeltrita di amarezza. Non sono i grandi gesti, i grandi eventi a rimetterci sul sentiero. Ci danno forse una spinta: poi sta a noi riprendere lo zaino in spalla e prendere la strada, Tutti i Giorni.
E’ nella Quotidianità che si ritrova il Gusto per la Vita. Un po’ di Attenzione e un pizzico di Meraviglia. Attenzione verso chi ti sta accanto, verso cosa ti succede di fianco. Meraviglia per la straordinarietà dei giorni. E’ assurda la nostra grandiosa capacità di sottovalutare l’esistenza, perdendosi la magia dello scorrere del tempo. Ogni giorno si compiono accanto a noi silenziosi miracoli che neanche percepiamo. Non vediamo il Gusto in un sorriso, in un pianto, nel fare la spesa, in un fiore che sboccia, in una foglia che cade. Non spalanchiamo gli occhi quando la pioggia scroscia, quando nostra mamma ci saluta, quando un fuoco muore a notte fonda.
Noi e la nostra società le consideriamo Sciocchezze, inutile orpello, superfluo dettaglio. Ma cosa c’è di più Grande, di più Bello della Vita che in ogni attimo si compie?
A contatto con Questa Vita che va compiendosi ci mettiamo in moto. Infatti, è camminando che Si Cammina. Vivendo –appunto- che Si Vive. Amando che Si Ama. Sembra una cosa scontata, son d’accordo. In realtà spesso si Pensa di fare certe cose. In realtà le stiamo solo Pensando e Non –realmente- Facendo.
Sappiamo tutti che il binomio “E’ Pensando di Amare che amo” non regge. Non c’è versi. Regge forse nella nostra testa, ma non sgorga dalle nostre mani, dai nostri occhi, dalle nostre labbra. Si impiglia fra i nervi, non sgorga in gesti. E questo perché l’Amore chiede, pretende e reclama la potenza dei Gesti, l’essenzialità delle Azioni. Le idee restano solo ottimi propositi.
Il Pensiero serve a Riconoscere la Vita, a Sistemarla, a Riordinarla per –poi- Progettarla. Tutto buono, tutto utile. Ma è Vivendo che si costruisce la Vita. Essa non dimora nel Pensiero. Il Pensiero non ha tempo. Sistema e aiuta a fare ordine in ciò che si è vissuto. Ma è la Vita stessa che ci fornisce tutta questa ricchezza d’argilla da modellare.
E tutto si nasconde dietro al Fare. Dietro ad un Fare semplice, ordinario, quasi primitivo. Non crediamo che sia Fare CHISSA’ COSA. Anche il semplice e immediato Stare è un piccolo –diverso- modo di Fare.
Stare in silenzio. Stare a guardare. Stare ad ascoltare. Stare a contemplare un volto, una rosa o la gente che passa. Stare e Stare in Ricezione, aperti, attenti alla Vita che si compie.
Non è un cambiamento drastico. Non è niente di più che un Ritornare a Sé. Un ritorno alla Vita Materiale, alla concretezza, alla quotidianità. Ciò a cui è –da sempre- asservita la Vita Ideale. “Ribaltare i Rapporti” diceva un lottatore. Il rischio –mio- si concretizza tutti i giorni. C’è da starci attenti, e anche parecchio.
L’importante è avere sempre il Pensiero come Mezzo. E la Vita come unico, vero, sostanziale Fine.

domenica 18 ottobre 2009

La drammatica Non-Esistenza di Perchè

Certe cose nella vita Accadono e basta. Non ci si spiega il Perchè e -soprattutto- non si deve cercarlo. Bisogna Accettare la Realtà e conviverci, senza farci troppo a botte. Ci sono cose che non si spiegano: la morte è una di queste.
Ma non importa andare troppo sul “difficile” per cogliere l’inspiegabilità dell’esistere. Alle volte è l’incontro con una persona o con un’entità metafisica a darci cervellotici dubbi sul Perchè. Altre volte anche una meravigliosa carezza, un’occhiata o un pensiero tenero ci lasciano a bocca aperta, con un Perché penzolante da immobili labbra.
Perché, Perchè, Perché, Perché, Perché. Ogni volta la solita zuppa: proviamo a ricostruire una qualche logica ad un ribaltamento dell’anima. Proviamo a rimettere in ordine la stanza. E sistematicamente fatichiamo a trovarne un fondamento. La soluzione sarebbe forse ricostruirsi una qualche scusa o giustificazione al caos maledetto che ci ha messo quell’evento: se ci accontentiamo di una Falsa e Illusoria Soluzione la strada è quella giusta.
Ma se cerchiamo la vera sostanziale motivazione a Quella scena, a Quell’incontro, a Quella strana Casualità. Se cerchiamo qualcosa di Realmente Reale capace di far quadrare il cerchio. Beh, alle volte dobbiamo arrenderci e lasciare i nodi intrecciati, i fili appallottolati e la vita arruffata.
Convivere con una Vita spettinata è forse meglio che venirci alle mani, ed uscirne coi lividi. Certo, c’è da spengere il cervello: la cosa non è così immediata, ma si può imparare. Imparare a manovrare in quegli stretti spazi in cui ci è dato decidere, sapere, capire. Al di là, Oltre il limite del conoscibile non siamo autorizzati ad attingere. Forse è lì che Qualcuno ha nascosto la Sostanza delle cose, della vita, dell’amore, del dolore. Le ha rimpiattate lì per non farle strappare, sgretolare da qualche furioso individuo in collera con l’esistenza. Un buon intuito di preservazione, tutto sommato. Anche se continuiamo a pagare il prezzo emotivo di nostre intime domande prive di un’affermazione attendibile e –soprattutto- corrispondente.

domenica 11 ottobre 2009

Punteggiatura - l'essenza nascosta del nostro Essere-

Spesso non abbiamo un Posto preciso. Tantomeno impersoniamo un Ruolo o una posizione sociale.
Spesso siamo pura, semplice, rarefatta Punteggiatura. Tutto qui: dei meri segni intrisi di un qualche strano significato.
Possiamo somigliare ad una Virgola. Rappresentare un passaggio, una pausa. O molto più banalmente una presa veloce di fiato prima di proseguire nel discorso. Così come arriviamo ce ne andiamo, nel silenzio di un infinitesimo attimo di vita. Arriviamo dopo una parola –spesso importante- e diamo lo slancio ad un’altra che va compiendosi. Spingiamo, facciamo fluire e ritmare il discorso. Ecco fatto, finito il nostro compito.
In alternativa possiamo incarnare un Punto fermo. Lì la sosta è più lunga: non siamo di passaggio, non siamo futile ornamento. Al nostro fianco la vita si ferma un po’, si riposa e si ristora. Chiudiamo una parentesi, le diamo un senso, doniamo un piccolo tocco di sale ad un discorso che probabilmente mai si compirebbe. Separiamo i discorsi e li aiutiamo a sanare le ferite del loro lavoro. Abbiamo stabilità, certezza, posizione fissa e duratura. Non voliamo via con il primo tocco di penna, anzi.
Possiamo essere un Punto Esclamativo. Raccogliere in noi l’ebbrezza di un momento, la gioiosa maestosità di una fuga nell’infinito. Avvolgere di passione istanti di esistenza che appaiono così eterni, così belli, così intoccabili. Laviamo via le macchie di una quotidianità abulica per pochi minuti, giusto il tempo di disilludersi della futilità di tutto ciò. Il cinismo riporterà poi il tutto su un piano “normale”, con implacabile inevitabilità. Ma intanto il nostro volo si è compiuto, toccando il cielo con un dito, sentendo nel naso l’odore di aria rarefatta. Abbiamo goduto –per un attimo- o abbiamo fatto godere.
Oppure –amaro gioco del destino- possiamo essere un Punto Interrogativo. E qui il gioco si complica, parecchio. Non si sa cosa rappresenti, se non un simbolo d’incertezza, di dubbio, di incoscienza. Non si sa il preciso valore che dà alla frase. Tutto si gioca intorno all’intonazione, alla lettura, all’interpretazione soggettiva del lettore. Non c’è alcun valore di sicurezza. E’ lì, sospeso fra la realtà e la possibilità, fra l’essere e il non essere, fra la vita e la morte. Un accordo sospeso, un fiume stagnante, una palude melmosa. C’è, si vede, si può toccare. Ma non si capisce bene dove vada, o a cosa serva, o cosa significhi –per noi-. Sentiamo che c’è e a ciò ci limitiamo. E qui la Paura ci avvolge, ci turba e ci inquieta: temiamo ciò che non conosciamo, ne siamo maledettamente spaventati e –dunque- limitati. Un Punto Interrogativo ha addosso quella sottile linea di confine fra il reale e il non reale, fra la verità e la falsità. C’è, ripeto, non si discute. Il problema sta nel Come e nel Cosa Voglia Significare quel girigogolo snodato sopra un puntino.
E probabilmente nella vita son questi che ci fanno casino, che ci scombussolano il normale susseguirsi dei giorni. Il discorso fila liscio fin quando non ci imbattiamo in uno di questi maledetti Punti. E lì ci piantiamo –arenati nel fango- in attesa di uscirne con un colpo di reni o con una fune di un amico. O forse basterebbe accettarli, imparare a conviverci e dar loro un Significato semplice, tutto Nostro.

venerdì 25 settembre 2009

Autunno -L'Avvento dell'Oro-

Il soffice sole d’autunno mi piace. Mi restituisce uno strano vigore, me lo instilla dentro. Forse sarà quella dolce Attesa di Oro nel bosco. Foglie che cadono da tutte le parti solo dopo aver regalato l’Oro. Ti mette di buon umore, ti mette Fiducia addosso. Fiducia per la vita. Non son alberi tristi quelli pronti a spogliarsi: son Sereni, sanno che è giusto così. Non portano il broncio, affatto. Anzi, cercano di sfruttare appieno il loro destino a denudarsi. Si fanno immensamente belli in quella posa decadente. Si immolano con infinità generosità nell’offrire al mondo la loro stupenda morte. Perché –alla fin fine- il loro è un nuovo morire. Morire e rinascere. Morire e rinnovare. Morire per tornare a splendere. Morire, solo dopo essersi fatti Oro. Geniale trovata della Natura.
E a me quest’alternativo punto di vista piace. Piace per gusto o forse per bisogno. Forse per sfizio. O forse sarà la voglia di riaccendere il camino, prendersi cura del fuoco, coccolarsi la legna, l’atmosfera di casa. Forse è il bisogno di Intimità che sopraggiunge col freddo, con la pioggia. I pomeriggi appoggiato alla finestra, con un libro in mano e l’abete che scoppietta nel braciere. Sentire le mura di casa che ti abbracciano e non ti mollano. Il calore che esce dalla stufa, le fiamme che si divincolano nel loro eterno scomparire. E in mano un lapis e un libro. Il capo chino, poggiato su un cuscino. La copertina di pile sulle gambe e Frida che mi russa a fianco. E’ un Ristoro, un piccolo intimo Ristoro. O forse un’elegante fuga mascherata –questo non saprei-.
So che questo nuovo autunno che viene mi dà gusto. E mi stuzzica. E ancora mi piace vederlo avanzare nel calore di questi pomeriggi, nelle fronde dell’estate che ancora su questo cielo s’affacciano. E’ così che si prepara: nessun distacco netto, tutto avviene in continuità. Io intanto me lo godo, aspettando in silenzio l’arrivo della tenera pioggerellina ritmata.

lunedì 21 settembre 2009

I Vigliacchi -o forse Noi-

I Vigliacchi stanno nella merda. Ci stanno e non provano ad uscirne. Semplicemente ci sguazzano, quasi per abitudine.
I Vigliacchi non escono dalla fanghiglia. Non che gli piaccia, sia chiaro: semplicemente son troppo fiacchi per levarsi di lì. Comunque sia alzarsi, scuotersi, levarsi la poltiglia dai vestiti richiede una certa energia. Ci vuole forza, e forza di volontà –mica storie-.
I Vigliacchi non abbandonano quella maledetta palude che li avvolge. Se ne stanno lì, sommersi fino al collo, senza colpo ferire. Non odono le voci di quelli che raccontano di paesaggi meravigliosi o di uomini sapienti. O meglio, le sentono ma non le ascoltano.
I Vigliacchi, quelli non partono mai. Non prendono un aereo per andare a visitare un posto nuovo, non gli interessa. Non cercano un qualche prato assolato su cui dormire, invece della solita scialba gelida steppa.
I Vigliacchi non rischiano. Preferiscono avere un cielo grigiastro sopra la testa, piuttosto che preparare lo zaino e cercare un po’ di solicino. Preferiscono bere il caffè tiepido, piuttosto che rifarselo –o scendere al bar sottocasa-. Preferiscono lagnarsi, piuttosto che rimboccarsi le maniche.
I Vigliacchi non si incazzano per i colpi ricevuti. Stanno zitti e basta. Incassano, in silenzio. Non sbraitano, non gioiscono. Semplicemente incassano. E non fanno niente per reagire al colpo preso. Forse piangono, ma in disparte –senza farsi vedere-.
I Vigliacchi non costruiscono la loro vita. La subiscono. Lasciano agli altri l’onore e l’onere di decidere cosa farne di questi anni. Si rendono schiavi, sudditi. Ingeriscono con mesta rassegnazione le scelte altrui, con strisciante devozione alla loro capacità di scelta. Tutto va bene, tutto è ottimo: anzi, è quasi il migliore dei mondi possibili.
E spesso siamo Noi i Vigliacchi e lentamente moriamo –o semplicemente sono Io-. O forse attendiamo solo una Scossa, una spinta. Non da fuori, non dal mondo, non dalla gente. Una Scossa da dentro. Dal profondo. Più o meno simile a quella che ti porta ad alzarti dal letto e iniziare la giornata (solo un po’ più forte: qui si parla di Vita Vera). L’aiuto a cominciare la strada verso il mondo. L’aiuto ad uscire dalla melma per poi ripulirti. E poi –pulito- Partire. Partire e Cercare. Partire, e Cercare, e Guardare. Partire, e Cercare, e Guardare, e poi –finalmente- Gustare. (Il tutto ad Occhi Chiusi).

giovedì 17 settembre 2009

Così fan tutte le Guerre -purtroppo-

Attentato a Kabul. Sei ragazzi sono morti, sei giovani vite spezzate nello scoppio di una bomba. Non si può che fermarsi e osservare un minuto di silenzio per loro. Un lungo minuto di silenzio. Rispettoso.
Dopo ciò, però, occorre osservare l’evento con occhio oggettivo. Occorre guardare al contesto in cui esso si è sviluppato, alle cause che hanno spinto gli attentatori a far saltare per aria il convoglio. Ed io Non Giustifico l’atto, ma non posso biasimarlo. Coloro che hanno architettato tutto ciò, coloro che hanno volutamente ucciso questi militari, costoro combattono per la loro Libertà. Ciò non va dimenticato. Questa è la guerra. Questa è la Tragica Dolorosità della guerra.
E questi uomini combattono. Combattono per togliere i soldati occidentali dalle loro strade, per far scomparire le mine dai campi in cui giocano i loro figli. Combattono per alzarsi la mattina e non doversi nascondere come conigli. Non importa se abbiamo portato loro un po’ di “Democrazia” o se abbiamo “civilizzato” i loro costumi. Loro -come noi, come tutti gli uomini- hanno sete di Libertà. E non potendo combattere ad armi pari lo fanno tramite attentati. Forse vigliaccamente, ma è la loro unica arma.
Così fanno loro. Così fanno in Iraq. Così fanno in Palestina. Così abbiamo fatto noi, durante la Resistenza. I nostri tanto osannati Partigiani agivano come loro, niente di più niente di meno: si celavano sui monti, progettavano assalti, facevano esplodere convogli tedeschi. E’ la stessa identica tattica: se non puoi sconfiggere il nemico faccia a faccia, allora nasconditi e coglilo di sorpresa. La guerra è –Purtroppo- questa.
Con ciò –ripeto- non voglio scusare l’uccisione dei nostri compatrioti. Non chiedo di Giustificare, chiedo solo di Provare a Capire. Provare a immedesimarsi nella situazione di questi Uomini -come noi, come i nostri soldati uccisi- che da anni hanno ormai truppe straniere quotidianamente per le loro strade. Ed è –forse- un umano atto di Coerenza tentare di comprendere gli afghani di oggi (o gli iracheni, o i palestinesi) alla luce dell’ammirazione per i Nostri Partigiani. I Nostri hanno combattuto per la Libertà dell’Italia: questi non lottano forse per la Libertà delle loro terre? Se la Nostra era una Lotta “giusta” non lo è forse anche la loro?
Penso sia da qui, e non dall’odio per i kamikaze, che si possa partire per un progetto di Pace. Capire, conoscere, toccare le situazioni dell’altro è il primo passo per la Fine dei Conflitti. Se davvero ci rendiamo conto che in quei volti, che tanto perseguitiamo, ci sono i nostri combattenti di sessant’anni; se prendiamo atto che gli ideali sono gli stessi, ma cambia solo luogo e tempo, forse li odieremmo un po’ meno. O forse non li odieremmo affatto. La Pace parte dalla Conoscenza e dalla Vicinanza all’altro.
Oggi, 17 settembre 2009, piangiamo i nostri ragazzi caduti. Portiamo il lutto per le loro vite tagliate. Con amarezza osserviamo la Tragicità della Guerra, ne tocchiamo le Violenze, le Sofferenze. Proviamo a comprendere la rabbia di questi popoli oppressi, le loro libertà privategli, la loro frustrazione. E intanto prepariamo la Pace, nel nostro piccolo. Proviamoci.