domenica 28 marzo 2010

Libertà, Sistemazione e Vita che scorre

Ci vuole Coraggio per sopportare di essere Liberi. Liberi dai condizionamenti degli altri, liberi dalle stupide paure che avvinghiano i giorni.

E’ molto più semplice restare in catene. Sebbene molto meno saporito. Le guardie ti indicano cosa fare, la tua giornata è scandita dal geometrico susseguirsi di azioni preconfezionate. Tu devi solo seguire quello schema. Niente di più. Scuola, casa, studio, amici, birra, serata, donne, baci, delusioni, passioni, calcio, arbitro, sogni, allenamenti, prospettiva, libri, poesia, filosofia.

Ma qui manca la Vita. La Libertà ti permette di prenderti la Vita. La Libertà di camminare per la strada a testa alta. Di gridare silenziosamente a tutti “Io amo lei, e allora?”. La Libertà di guardare negli occhi n amico e dire “Sto male” e sentirti abbracciato nonostante gli errori e le cazzate che hai sparso per la strada. Eppure, per essere Liberi, per godere di questa aria pulita che sfonda le vie polmonari, per Vivere, ci vuole Coraggio. La Paura blocca soltanto. Non ti rende più responsabile, o consapevole. La Paura ti inchioda al muro. Ti incatena, come tutti quei rigidi schemi che hai sentito serrati alle caviglie per non so quanti anni ma che –solo ora- ti accorgi essere Freni. Freni, non Trampolini. Un Limite, non una Potenzialità.

C’è da levarsi questa maledetta Paura di dosso e buttarsi. Scrollarsi questo fardello di anelli in catena. Smettere di essere luridi melmosi vigliacchi. E togliersi la Paura della Vita che entra dentro. Lasciarla fluire, come un fiume verso il mare, come l’amore di una mamma. In semplicità, lasciar fare alla Vita. Accettare quello che è e quello che deve essere. Fosse anche prendere quel viso d’angelo e abbandonarlo sulle rive del fiume. Fosse anche la traumatica lucidità di una ormai consapevole inadeguatezza. Intrecci di rapporti fra cose in sé bene o male sane, ma fra loro quasi patologicamente soffocate.

C’è da distruggere le catene e guardarla, questa Vita. Con occhi lucidi, forse. Piangendo, ci sta. Ma senza quella isterica brama di legislatore del mondo che tutto vuol comandare, che tutto vuol far quadrare.

A volte il cerchio non quadra. Maledetta geometria di punti infinitamente accostati. Ti avanza un pezzo o ti manca. Fatto sta che dal cerchio non esce un quadrato. Al massimo un ellisse. Un orrendo sfigurato ellisse che si presenta come l’ufficiale attestazione del fallimento dell’opera. E ti ostini a far tornare i punti. A vedere un’infinita catena di piccoli punti che resta vanamente incompiuta nel suo spazio a due dimensioni.

A due dimensioni. Già con due a volte il gioco si fa duro. Figurarsi in tre. Non immaginiamoci la quarta, lo spazio-tempo e altri patologici parenti simili. Sistemare la vita in x e in y è già fin troppo complesso. Il resto, lasciamolo stare. Ma forse c’è da cessare la nostra scellerata attività di matematici contabili. Non c’è nemmeno da provarci. E questo non per mancanza di capacità, ma per un dovere necessario di sopravvivenza. Per salvarsi la Vita.

Cercare quella totale Libertà che ti apre alla Vita, che ti mette fragile e nudo di fronte al fluire di un’esistenza caotica. Lasciare che la Vita si compia nella semplicità delle nostre azioni. “Fare, mentre la Vita si compie” –appunto-. Accompagnarla in silenzio, senza pretendere niente. Liberare Noi e la Vita da ogni schema. Leggerla come un libro di poesie, innamorandosi di immagini, odiando suoni stonati, contestando arrogantemente la sistemazione delle parole. Ma mai pretendere di spiegare tutto. Lasciarsi sfiorare dalla “percezione d’infinito” che ha toccato i giorni. Lasciarsi accarezzare, passivamente. Il resto verrà e si snocciolerà da sé come riso che cade da un vaso: nessun chicco si chiede se riuscirà a sfociare. Sa solo che –prima o poi- troverà la Via, come tutti gli altri. E finirà al Suo posto.

Certo, ci vuole Leggerezza e Prospettiva. Condizioni di fondo indispensabili –per ora- ancora non raggiunte. Ma –anche su quello- possiamo lavorare, con pazienza. Intanto c’è da capire se il profumo di questa totale Libertà fa per noi oppure ci spaventa così tanto da portare le nostre caviglie a rinchiudersi di nuovo in antiche catene d’acciaio.

giovedì 4 marzo 2010

Rallentare, e fermarsi

I Treni viaggiano troppo rapidi. Tutta quella velocità, non si sopporta. Sempre il posto finestrino, sempre la scarpa poggiata sul condotto di areazione. Sempre un I-Pod nelle mano e due arterie che sfociano nelle orecchie. Pare ideale come condizione di quiete. Pare.

Ci si dimentica degli Occhi. Sempre. Preoccupati di tenere il culo al caldo ci si dimentica degli Occhi. La parte migliore. La più fragile. Abbandonati a loro stessi, gli Occhi si ritrovano bombardati da un susseguirsi paranoico di immagini. Una dietro l’altra. Senza sosta. Continui cambi di colore, di luci, di passaggi bruschi. Delineano i contorni ma non riescono mai ad afferrare il dettaglio, il particolare, la caratteristica. Sono nati per questo meticoloso mestiere. Lì, invece, si esaltano per la possibilità di avere tesori di finezze e –delusi- smarriscono ogni istante la loro passione. Sono svuotati della loro Speranza, della loro Prospettiva. Risucchiati nel vortice di un frenetico viaggio subiscono questa tortura, mentre intorno tutto prosegue la sua corsa.

E il problema non sarebbe così grosso se a soffrire fossero solo quelle due piccole luci. La fragilità della loro consistenza le espone per natura a gioie assolute, a macabri dolori. E’ il loro destino. C’è chi è nato per scalare montagne, chi per non uscire mai dal suo paese, chi per morire lottando contro il mondo. Gli Occhi, loro sono nati per essere Fragili. Una meravigliosa missione: accogliere la bellezza della vita nell’instabile consapevolezza della propria precarietà.

Con gli Occhi, si spia il paradiso e si sbatte sulla porta dell’inferno. Lucidi e sinceri raccontano la storia dei giorni al Cuore, chiuso nella stiva. Ed egli -teneramente avvolto nel suo purpureo mantello- chiede loro di descrivere le foglie, le cacche dei piccioni, i pianti dei bambini. Una disperata piangente richiesta, di innamorato ferito. Lui, che mai vede ma sempre e solo sente. Cieco fomentatore di una locomotiva che a tratti corre, a tratti sussulta.

Già, il Cuore e il Treno. Un destino per due. Separati dalla nascita. Tutti e due intrecciati a quell’inevitabile e stramaledetto compito di macinare metri su metri, e poi fermarsi di botto, e poi ripartire, e poi –ancora- scivolare via. Quel loro essere disarmati davanti a visitatori sconosciuti che dipingono le loro pareti con colori sgargianti. Solo che il Treno –a volte- riesce a difendersi, ripartendo. Il Cuore no: si prende tutto, carezze e graffi, abbracci e offese, persino colpi di fulmine. Immobile. Subisce ma non si spaventa più di tanto. Accoglie tutto con Prospettiva, gettando lo sguardo oltre l’orizzonte, facendo tesoro delle scosse che lo destabilizzano. Solo una cosa non sopporta: la Mancanza d’Aria. Quella non la regge. Si gonfia a dismisura fino a esplodere, schizzando verso ogni dove gocce dense, gocce che restano impresse sui muri. Gocce di sangue. La Mancanza d’Aria lo annichilisce, lo fa impazzire. Pompa a raffica, senza sosta, senza rallentare, aumentando a dismisura i battiti e la pressione. Ad ascoltarlo pare emettere un battito unico, continuo.

E quell’Ansia, quell’Angoscia priva di Prospettiva gli arriva dritta dritta dagli Occhi. Da quella fonte immensa di accoglienza di luci, di immagini, di volti. Gli giunge da loro, i suoi narratori di magie. E’ un’amicizia che ogni tanto s’incrina, sferzata da un’ipertrofica produzione di sensazioni. Succede alle volte. Succede sui treni, quando gli Occhi viaggiano alla velocità della luce in cerca di un punto fermo a cui rubare dettagli. Succede davanti ai Volti che non si spiegano, ma restano sempre aggrovigliati nella misteriosità dell’incertezza. Succede sotto i Muri, quando gli occhi smarriscono la Prospettiva e cercano nell’omogeneità del cemento un dannato punto di fuga. Succede, bisogna prenderlo con leggerezza. Litigarci non aiuta, anzi porta solo affanno. E il Cuore spasima, e gli Occhi lacrimano dispiaciuti.

C’è solo da rallentare a volte. E fermarsi. E guardare i particolari degli occhi di un bimbo, dei suoi canini caduti in prima linea, della sua voce squillante. Perdersi nel sorriso nascosto di una donna che ti ama, o vorrebbe farlo, o non lo vorrebbe affatto. Sorridere sulle righe di un poeta malinconico, o tremendamente disperato. Da fermi, con i piedi per terra e la schiena ben dritta. In un posto aperto, dove si possa respirare il profumo dell’aria e la puzza di umido che sale dall’erba. Rallentare, tutto qui. E aspettare che il Cuore rientri nella sua ritmata regolarità e gli Occhi si asciughino, ma non troppo.

La Velocità mi mette in affanno. O la mancanza di Prospettiva. Fra le due, non saprei dire.